Creare il nido: un respiro che ci accompagni nella pratica

Ieri sono stata seduta davanti al tramonto. Guardavo le colline, come una accompagna lo sguardo sulla successiva, come il nostro sguardo non è mai lasciato solo, ma preso per mano e guidato, dalla natura. Guardavo la luce arancione del sole diventare rossa e poi rosa e poi viola. Anche lì il mio sguardo era accompagnato. L’ho guardata diventare nera.

Cos’è che ci trasmette sicurezza? Cosa ci cattura l’attenzione, ci incanta, ci rassicura e, infine, ci consente di abbandonarci?

Cos’è che ci rassicura, sdraiati sul tappetino, in cerca di rilassamento? Cosa ci fa pendere verso la presenza, quando possiamo scegliere con quanta intensità abitare un asana? Che cosa, infine, ci fa abbandonare a terra, alla calma o al pianto, anche nei giorni più ansiosi?

Il nostro sguardo, come il pensiero, le ossa e il cuore, ha bisogno di essere accompagnato. Quel qualcosa di accogliente e caldo che il tramonto conosce così bene, quello sarà il nostro insegnamento.

Qualche anno fa ho iniziato a registrare le pratiche per i miei allievi, alla fine delle nostre lezioni individuali. Insieme avevamo capito che, se c’era la mia voce ad accompagnarli, seguire con costanza una pratica anche a casa era meno difficile. A volte mi capita di suggerire loro di scegliere una piccola pratica o un mantra e registrarlo da sé. Quanto la nostra pratica è efficace, quanto serve davvero a sostenerci nella vita, dipende anche da quanto rispettiamo i nostri ritmi, da quanto siamo amorevoli verso i nostri bisogni e debolezze. E non c’è teoria o forzatura che tenga, per me: la pratica è vera solo quando sa prendersi cura di noi e tutti i trucchi e gli strumenti che rispondono a questo scopo sono ben accetti.

Mentre il mio sguardo era accompagnato dalla colline e dai colori del tramonto, ho provato a sintonizzare il respiro su una struttura che rassicurasse il mio corpo. Ho ricordato un pranayama che abbiamo sperimentato nelle scorse settimane con gli allievi dei corsi dello Studio Yoga e mi sono, ancora una volta, inchinata alla saggezza infinita di uno yoga che legge nella natura, per curare la natura dell’essere umano.

Il pranayama è un semplice ripetersi di inspirazioni ed espirazioni, via via più lente: inspiro contando la durata della mia inspirazione ed espiro facendo lo stesso. Al respiro successivo, provo ad inspirare ed espirare per un secondo in più, allungando via via la durata dei respiri, accompagnando il corpo e la mente nella dimensione raccolta e rassicurante della mia pratica.

Quante resistenze ho, oggi, ad abbandonarmi? Quanto dolore, quanta gioia, quante difficoltà incontro a lasciarmi andare, ad accettare e attraversare la mia profondità?

Di una pratica equilibrata sui ritmi lenti del corpo e della sua natura non dobbiamo avere paura. Non c’è forzatura, quando procediamo attenti e lenti. Non deriverà mai nulla che non siamo pronti a sostenere, dai passaggi seguiti con accortezza, un respiro dopo l’altro, verso noi stessi. Questo pranayama sarà, allora, un fidato strumento per entrare nella nostra pratica, qualsiasi forma abbia quella preghiera istintiva che è il guardarci dentro e parlare alla nostra naturale divinità e saggezza. Che questa pratica sia come guardare il tramonto e arrivare, lenti, a non avere paura del buio. Che questo pranayama sia un ingresso lento nella dimensione magica del corpo abbandonato, della mente che sa come diventare il nostro nido.

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