
10 Ott Nel corpo, la testa calata qui dentro, iniziamo a cantare
Si crea un’alchimia densa, ricchissima, quando riusciamo ad armonizzare il corpo con il pensiero. Ai miei allievi descrivo spesso questo processo come: calare la testa nel corpo e lasciare che i sensi informino il pensiero.
Quante volte hai lasciato che fosse un brivido, che fosse l’insorgere improvviso di una sensazione di fermento, o l’assestarsi di un colpo doloroso, a rapire il tuo pensiero? Quante volte hai accolto una sensazione, senza cercare subito di giustificarla, giudicarla, organizzarla, sminuirla?
Se non concedi al corpo di restare in quel che prova, se non gli concedi il sostegno strutturante e comprensivo del pensiero, lo costringi a vivere, e rivivere e ripetere, senza via di fuga quel che ha conosciuto e provato.
Ogni cosa è un dono, un insegnamento, uno scambio, uno scatto verso avanti nel nostro cammino d’evoluzione, o un brusco passo indietro, a mostrarci cosa avevamo bisogno di correggere. Ogni cosa è un dono, ripeto ai miei allievi dei corsi a Lo Studio Yoga di questo mese. Ma quanti doni riusciamo a vedere? Quanti ci concediamo di prendere? Di quanti godiamo, poi, davvero?
Godere di un pianto o di una risata, ancora prima di aver deciso se vanno bene o male. Goderne, accettarne il nutrimento, perché loro, in primo luogo, sono il dono che i tuoi sensi ti porgono, sono il dono del tuo corpo. Sono il segno che sei vivo.
Un corpo che ha scordato come si percepisce il mondo, che ha delegato alla testa anche il suo istinto, si ammala. Un corpo vinto dalle paure e dalle decisioni preconfezionate si arrende, si deprime, smette di lottare per la meraviglia.
Far vibrare, far faticare e poi riposare il corpo. Smuovere il cuore, portandolo dolcemente a guardare fuori e guardarsi dentro. Fermare gli occhi sui grappoli d’uva appesi alla vigna. Fermare la lingua sul pizzicore di una foglia di rucola selvatica. Muoversi e fermarsi, cambiare ritmo, per sentire ancora un po’ di più e attraversare un’emozione e poi accorgersi che siamo più grandi di lei, che possiamo contenerla, come possiamo contenere il mondo, perché abbiamo trovato il nostro modo di starci dentro.
Sederci a terra, nel mezzo della stanza. O fuori, nella temperatura bassa dell’alba. Sederci e dircelo, finalmente: “Mi fido di ascoltare il mio respiro. Mi fido di sentire solo questo e senza giudizio. Mi fido di questo dono: l’aria che entra, le costole che si alzano, l’aria che esce, la pancia svuotata, il mio corpo che parla.”
Sederci a terra e cominciare la nostra rivoluzione: far suonare lo strumento prezioso che siamo, testa calata nel corpo e smontare tutte le idee su di noi e sulla vita che non ci nascono dentro, quando ci scambiamo doni con l’aria, nell’istinto.
Prendiamolo adesso il primo respiro, insieme. Gli occhi si ammorbidiscono e la pelle si ricorda di essere un confine poroso, in cui dentro e fuori si mescolano e noi possiamo prendere, cedere e dare. Dal corpo iniziamo a capire, a perdonare, ad accogliere, ad avanzare immuni. Nel corpo, la testa calata qui dentro, iniziamo a cantare.
“Quando il violino può perdonare il passato inizia a cantare.
Quando il violino riuscirà a smettere di preoccuparsi del futuro, tu diventerai una seccatura così divertita e ubriaca che Dio, allora, si inchinerà e inizierà a pettinarti nei suoi capelli.
Quando il violino può perdonare tutte le ferite causate dagli altri, il cuore inizia a cantare.”
Hafez
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